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L’intervista

Valentino Mannias, dal Mostro all’Amleto: «Oggi Shakespeare scriverebbe serie tv»

di Alessandro Pirina
Valentino Mannias, dal Mostro all’Amleto: «Oggi Shakespeare scriverebbe serie tv»

L’attore protagonista della serie Netflix dei record arriva in Sardegna con il suo spettacolo teatrale

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Negli ambienti teatrali il suo nome è già conosciuto da tempo, nel 2024 ha trionfato al Premio Ubu come migliore attore under 35, ma ora Valentino Mannias, classe 1991, di Serramanna, ha conquistato anche la platea televisiva grazie al boom della serie “Il mostro” diretta da Stefano Sollima, dove presta il volto a Salvatore Vinci, uno dei sospettati della cosiddetta “pista sarda”. E dopo il successo tv Mannias ritorna al primo amore, il teatro. Dopo Arzachena l’attore porterà il suo “Hamlet in Purple” venerdì e sabato (in matinée) a Meana Sardo, mercoledì 10 a Macomer, giovedì 11 ad Alghero e sabato 13 a Sanluri, sotto le insegne del Cedac.

Valentino, come sta vivendo la popolarità?

«Direi bene. È un momento che per me arriva in maniera abbastanza organica, non come un fulmine a ciel sereno. Dopo tanti spettacoli e anni di studio questo momento rappresenta un’ottima opportunità per convogliare l’interesse delle persone anche verso il teatro, verso una produzione come quella di “Hamlet in purple” che porto avanti con la compagnia Bluemotion e su cui lavoravo da quattro anni. Dopo aver tradotto il testo in versi, coinvolto Luca Spanu e Is Mascareddas, una volta uscita la serie tv su Netflix immaginavo di accogliere un pubblico più vasto che forse prima non sarebbe venuto a teatro».

Qual è la particolarità del suo Amleto?

«Non cercare nessuna particolarità. È l’Amleto di Shakespeare e io l’ho tradotto proprio nel suo linguaggio, molto simile a quello dei nostri poeti improvvisatori. Poesia alta e popolare nel contempo. Il drammaturgo scriveva per gli attori, avendo probabilmente in mente le loro voci. Credo che la traduzione fatta da un attore in questo senso abbia un valore in più, restituendo alla parola la sua potenza originaria, la leggerezza della freccia e la profondità del cuspide. Un attore da solo nel suo camerino ripete il testo come se non ci fosse più un teatro dove rappresentarlo e, oltre lui e il musicista Orazio, gli altri attori sono dei burattini di legno e una marionetta di Is Mascareddas, metafora di morte».

Quanta attualità c’è nell’Amleto?

«I temi che troviamo nei classici non sono riducibili a dinamiche in cui specchiarci direttamente. Dobbiamo attualizzarci noi a essi, non il contrario. Amleto ad esempio è contornato dalla guerra, c’è il rapporto col potere, l’arte che risveglia la coscienza del re. Tra questi, quello che forse mi ha toccato di più, è il percorso di accettazione della morte che attraversa il principe».

Essere o non essere: qual è il vero significato?

«È un verso che può riflettere diversi significati, ma penso sia una banalizzazione considerarlo il più importante del testo. Per me oggi è una domanda che deve farsi il teatro stesso. In un mondo dove puoi, spesso pagando molto meno, guardarmi in tv dal tuo divano perché dovresti venire a vedermi a teatro? Gli artisti per primi devono riscoprire il senso di questo incontro, farsi scuotere da questa domanda. Il mio Amleto è un funerale al teatro col requiem di Luca Spanu, ma il funerale è sempre un momento in cui il defunto rivive nell’anima».

Il ruolo di Is Mascareddas?

«Direi che è stata la parte più importante di tutto il lavoro, perché mi ha permesso di fare una grande metafora scenica del testo. Le creazioni di Donatella Pau raccontano il gioco tra realtà e finzione, tra senno e follia, la morte e anche il teatro stesso con la baracca di Tonino Murru e la sapienza di una compagnia che incanta da mezzo secolo. Sono gli attori che Amleto chiama a Elsinore per scardinare il potere di ogni epoca».

Quando è stato scelto per il Mostro conosceva la storia?

«Come tutti ero incagliato nel personaggio di Pacciani. È stata una scoperta anche per me sapere dove tutto è cominciato: la pista sarda. Io sono di Serramanna, vicino a Villacidro, in pianura arrivava qualche voce. Ho apprezzato molto la scelta di Sollima e Leonardo Fasoli di non voler suggerire chi fosse il Mostro, peccato originale di quasi tutte le produzioni letterarie e audiovisive su questa storia. Il mostro può essere chiunque si specchi nelle dinamiche di potere e nelle relazioni tossiche che raccontiamo».

Come si è preparato per interpretare Salvatore Vinci?

«Non pensando appunto di dover interpretare “un mostro” - ricordiamoci che lui per la legge italiana è innocente - ma un uomo. Le cose terribili, come la violenza, ci piaccia o no le abbiamo dentro e un attore le indaga dentro di sé per mostrarle agli altri, senza giudizio. Inoltre penso sempre che a 14 anni io ho incontrato la musica rap, poi il teatro, maestri che con due parole mi hanno cambiato la vita. Fortune che non tutti hanno avuto, sicuramente non alcuni personaggi che interpreto. Questo approccio mi dà anche un obiettivo politico nel raccontare storie di emarginazione, oltre a una preparazione fatta di studio delle fonti, analisi del testo e lezioni di armonica».

Ovviamente non mancano le critiche. C’è chi accusa la serie di denigrare la Sardegna.

«L’errore di fondo è pensare che questa storia voglia rappresentare tutta la Sardegna. È la storia vera di quei sardi emigrati in Toscana dalla fine degli anni ’50. Mi viene in mente con un sorriso quando Gogol nell’Ottocento prevedeva che i suoi lettori lo avrebbero accusato di denigrare la Russia nel suo romanzo “Anime morte”. Da spettatore sono invece contento di vedere per la prima volta a livello internazionale il sardo ben tradotto e parlato in maniera credibile. Sa limba est s’istoria de su mundu, la lingua è la storia del mondo, come scriveva Cicitu Masala».

Lei si è occupato anche della traduzione.

«È stato Sollima a dirmi: traduci tutto tu. Quattrocento persone sul set aspettavano che mia madre uscisse dal coro della chiesa di Villasor perché a me serviva il suo consiglio su una parola». La serie è un successo planetario, e anche una vetrina per voi attori.

Con il resto del cast, tutto sardo, vi conoscevate già?

«Non ci conoscevamo, se non di nome. Ma subito tra noi è scattato quello strano sentimento che provano i sardi quando si ritrovano in continente: complicità, emozione, ma soprattutto la consapevolezza di essere testimoni di un momento importante cinematograficamente per la nostra isola, la sensazione condivisa di rappresentare l’inizio di qualcosa».

Questa esperienza le ha già aperto altre porte?

«Ci sono delle proposte e adesso è il momento di scegliere. Dopo tanto teatro vorrei affacciarmi più spesso anche nel cinema, sono curioso. In quei sei mesi di riprese ho imparato tanto, un nuovo artigianato. Essendo un campo in cui ho meno esperienza è molto stimolante e la potenza che può avere a livello comunicativo è notevole. Credo che se oggi Shakespeare fosse ancora vivo probabilmente scriverebbe una serie tv».

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