La Nuova Sardegna

25 Novembre

Violenza sulle donne, una giornata non basta e non serve

di Vanessa Roggeri
Violenza sulle donne, una giornata non basta e non serve

Serve una rivoluzione culturale

25 novembre 2022
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È semplicemente inconcepibile che il genere umano abbia bisogno di istituire una giornata mondiale per ricordarsi di non commettere atrocità contro i suoi stessi simili. Appena ci liberiamo del velo di ipocrisia che ci copre gli occhi, diventa subito chiaro.

Non sarà una giornata internazionale come il 25 novembre, fatta di scarpette e panchine rosso sangue, dibattiti e fiumi di belle parole spese in tv e sui giornali, a salvarci dalla dilagante bestialità che pervade tutte le società del nostro pianeta. Per carità, sensibilizzare l’opinione pubblica su una piaga incancrenita come il femminicidio e la violenza di genere è doveroso e urgente, l’iniziativa è virtuosa e in qualche maniera produce l’autoassoluzione morale di cui tanto sentiamo il bisogno quando ci confrontiamo con le nostre mancanze. Ma ai fini della lotta, si tratta di una data che passa troppo leggera sulla coscienza collettiva.

La mia impressione è che l’Italia proceda su due livelli del tutto scollegati: quello superiore, teorico e consapevole, in cui si agitano la condanna della strage ininterrotta di donne e l’esortazione rivolta alle donne stesse affinché denuncino le violenze. Il livello inferiore concerne la vita reale, la dimensione in cui le donne che denunciano non sono ascoltate né credute; in cui il Codice Rosso si è rivelato un totale fallimento; in cui i magistrati non sono formati per affrontare un fenomeno così complesso; in cui non esiste un piano nazionale di prevenzione; in cui i carnefici continuano a odiare e a uccidere più o meno indisturbati, infischiandosene delle conseguenze giudiziarie. Conseguenze, in verità, tragicamente risibili.

I dati fotografano il momento storico che attraversiamo: nel 2022 le chiamate al numero verde antiviolenza 1522 sono state 16.272, l’88,2% in più rispetto al 2021; delle donne uccise il 15% aveva denunciato, l’85% non si era rivolto alla giustizia, e il 63% non aveva parlato delle persecuzioni con nessuno. Quindi, non soltanto vige una grave sfiducia nei confronti dell’apparato giudiziario, ma nel nostro bel Paese risulta che a prevalere è il silenzio. Chi subisce violenza di genere preferisce tacere. In pratica, più si parla del problema, più le piazze si tingono di rosso, e più per paradosso si completa un processo di normalizzazione del concetto di soppressione della donna, sia fisica che simbolica.

In generale si ha la percezione che il problema sia talmente congenito e diffuso, talmente radicato nel tempo, che non verrà mai estirpato. Siamo assuefatti oramai al bollettino quotidiano che riduce nomi e vite spezzate a meri numeri buoni per le statistiche. Siamo ben lontani dalla cultura del rispetto. Una donna che sfugge al controllo di un compagno ossessivo, che non è subordinata al potere maschile, che non è arrendevole ma pretende libertà e diritti, scatena un odio in una quota della controparte maschile ancorata a valori primitivi di supremazia che diventa ferocia. Una donna che pensa con la propria testa ancora oggi è disturbante. Una donna che osa ribellarsi al sistema va eliminata. Come è accaduto in Iran a Mahsa Amini, la ragazza morta per le percosse subite dalla polizia morale: la sua colpa è stata di non aver portato il velo in modo adeguato. Il suo omicidio ha scatenato l’ondata di protesta popolare contro le torture, la repressione e le detenzioni arbitrarie perpetrate dal regime di Teheran. Donne che si ribellano come le sorelle Mirabal, uccise a bastonate nel 1960 dal regime di Trujillo nella Repubblica Dominicana perché si erano opposte alla dittatura. Il 25 novembre commemora il loro assassinio. “Se mi ammazzano, tirerò fuori le braccia dalla tomba e sarò ancora più forte”, ha detto un giorno una delle tre sorelle. Mi auguro arrivi presto il giorno in cui non sarà più necessario resuscitare dalla tomba per riuscire a vincere le ingiustizie del mondo.

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