Roberto Saviano: «L’isola hub della cocaina. Assalti ai portavalori? Erano sardi, avevo ragione io»
Lo scrittore napoletano torna nell’isola: «Mortificanti gli attacchi dei politici»
A fine marzo, in Toscana, due furgoni portavalori furono assaltati sull’Aurelia. Da alcuni video, dall’accento, si evinceva senza alcun dubbio che si trattasse di malviventi sardi, tanto che Roberto Saviano parlò apertamente di banda sarda in trasferta. Apriti cielo. Dall’isola contro l’autore di Gomorra piovvero accuse di tutti i tipi: “razzista, offende i sardi, parla senza sapere”. Non solo leoni da tastiera, ma anche politici e rappresentanti delle istituzioni. I fatti poi hanno dato ragione a Saviano: per l’assalto 11 arresti, tutti con origini nell’isola. Ora, a distanza di qualche mese, lo scrittore napoletano arriva in Sardegna, oggi e domani al Teatro Massimo di Cagliari, con “L’amore mio non muore”, un recital tratto dall’omonimo romano ispirato alla storia di Rossella Casini, vittima della ’ndrangheta, sotto le insegne della rassegna “Pezzi Unici” firmata Cedac.
Saviano, chi era Rossella Casini?
«Rossella è stata una ragazza giovanissima che ha sfidato le regole della ’ndrangheta, ma non lo ha fatto in nome dell’impegno civile, lo ha fatto provando a fare la cosa più naturale e meravigliosa che esista: cercando la sua felicità».
Cosa l’ha spinta a portare in scena la sua storia?
«Credo sia importante mostrare in quanti modi ci si possa opporre alle organizzazioni criminali. Sarebbe troppo semplice, e finanche offensivo, sostenere che Rossella sia morta per amore: Rossella è morta per realizzare un sogno di felicità, un sogno ordinario ma la cui realizzazione, nel suo caso, avrebbe messo in discussione, le regole ’ndranghetiste, minandone le fondamenta. La famiglia prima di tutto, la famiglia criminale prima di tutto, la vendetta prima di tutto, la guerra prima di tutto».
Quante Rosselle Casini, e anche quanti, ci sono in Italia?
«Credo nella sua unicità. Rossella esiste nella assenza. Di Rossella non ci resta niente, non una tomba, non spoglie, solo qualche foto. Hanno impedito alla sua famiglia finanche un luogo fisico dove piangere la sua morte. Troppo pericoloso sarebbe stato non solo lasciarla in vita, ma anche consentire la commozione di fronte alla sua storia, una storia semplice. Due ragazzi si innamorano, lui è legato a una famiglia criminale, il sangue chiama perché è in atto una faida e non riesce a sottrarsi. Lei ci prova, in ogni modo ci prova a tirarlo fuori. Non ci riesce, ma è il tentativo che andava cancellato, quella sfida che arrivava da una ragazza senza armi. Se lo ha fatto lei, può farlo chiunque. È questo ad averla condannata a morte e all’oblio».
A marzo sarà il ventennale di “Gomorra”: come è cambiata la camorra in questi vent’anni?
«È cambiata come è cambiato il mondo: è diventata tecnologica e mediatica, ha nei social il suo più efficace ufficio stampa e nella profonda e drammatica crisi economica che stiamo vivendo la garanzia di longevità. Se il contrasto alle organizzazioni criminali scompare dalle agende politiche non è per ignoranza o connivenza, ma è perché senza i capitali criminali, l’economia legale collasserebbe».
E cosa è cambiato nella lotta alla criminalità organizzata?
«Dalla pubblicazione di Gomorra a oggi è accaduta la strage di Duisburg in Germania, l’assassinio di Peter de Vries in pieno centro in Olanda e la Francia sta lavorando per dotarsi di un sistema di leggi per facilitare il contrasto alle organizzazioni criminali. In 20 anni si è ben compreso, nonostante le tante, tantissime resistenze, che le organizzazioni criminali sono tentacolari, che fanno affari ovunque ce ne sia l’opportunità, che il narcotraffico è la sua fonte principale di guadagno e che quei proventi vengono rapidamente reinvestiti nell’economia legale che quindi ne è condizionata. Si è compreso che non sparano solo nei loro luoghi d’elezione, ma se si sentono messe all’angolo, sparano ovunque e quindi nessuno è al sicuro».
Vent’anni di Gomorra sono anche vent’anni di una vita sotto scorta: cosa significa essere un bersaglio?
«Significa stare nel mirino di tutti. Non solo delle organizzazioni criminali. Mi hanno reso un simbolo e il simbolo deve cadere, deve fallire. Mi hanno affibbiato una purezza che non ho mai perseguito, e quindi la gara è a chi mi lorda per mostrare che l’eroe antimafia è come tutti gli altri».
La camorra ha messo anche le mani sulla Sardegna. In che modo si è infiltrata nell’isola?
«La Sardegna è utilizzata come hub per lo stoccaggio di cocaina, per uso interno e per movimentarla verso le coste catalane e francesi. Ci sono referenti sia della camorra che della ’ndrangheta, questo è il motivo per cui non si parla di una mafia autoctona, ma di bande criminali».
Qualche mese fa dopo un assalto ai portavalori in Toscana lei parlò di banditi sardi e fu sommerso dalle polemiche, anche da parte di rappresentanti istituzionali. Gli arresti hanno detto che aveva ragione lei.
«Esatto».
C’è qualcosa che l’ha ferita di quelle polemiche?
«L’ottusità. A volte ho la sensazione che avere la possibilità di attaccarmi accechi al punto da perdere lucidità. Altre volte credo che attaccandomi ci si voglia anche posizionare politicamente. E quando anche le istituzioni cedono a questi istinti, ne escono sempre mortificate».
Con Michela Murgia parlavate di Sardegna?
«Michela è Sardegna».
Tutti conosciamo la Michela Murgia pubblica, lei ha avuto la fortuna di vivere intensamente quella privata: c’era molta differenza tra le due?
«C’era differenza. Come potrebbe non esserci. Nel privato ci si concede una leggerezza che talvolta la dimensione pubblica non tollera. Devo dire però che nel suo caso, a differenza di me, lo iato era minore. Riusciva Michela a sorridere e a cantare davanti a tutti, tra le altre cose con una voce bellissima».