Umberto Galimberti: «La Sardegna non diventi un’unica Olbia, colonia dei continentali»
Il filosofo ospite prima a Nuoro e poi a Cagliari: «Il potere agisce con la persuasione, l’unica antitesi possibile è la cultura»
La telefonata si apre con un sorriso, «guardi che non concedo interviste da due anni, non servono più a nulla, è un genere letterario da abolire». C'è di buono che lo ritiene un genere letterario. Ride. Per il resto Umberto Galimberti sembra pessimista, ma non alla Montale, semmai alla Heidegger, filosofo che ha studiato a lungo.
Il motivo è una società «che non ha più senso critico», che si fa abbindolare e fa crescere «le radici del male». Ospite prima a Nuoro per il Premio Deledda, poi a Cagliari per il festival Lei al Teatro Doglio, Galimberti guarda fuori dal finestrino e vede un’isola ancora non perduta: «Per rimanere tale non deve mescolarsi con la cultura continentale».
A Nuoro ha parlato della verità. “Dire la verità oggi è un atto sovversivo”, sostiene. Perché?
«Penso quello che diceva Nietzsche: quanta verità siamo in grado di sopportare e osare? E, aggiunge, l’errore non è cecità, è viltà. Platone dice: sia le parole di verità che di inganno devono essere accompagnate da persuasione, e chi la possiede ha in mano il timone per dirigere chi ascolta. Platone ha già detto tutto sul populismo».
Quindi in realtà la verità in sé non conta. Eppure media e politica cercano di darsi una credibilità proprio attraverso la ricerca della verità.
«Ma non la dice più nessuno. Perché in una società complessa, e quella dei nostri nonni non lo era così tanto come oggi, bisogna avere strumenti culturali e non pochi. Saper comprendere l’economia o i processi delle scienze, e queste competenze non le abbiamo. Perciò succede che il primo che ci dice qualcosa che ci affascina, lo seguiamo».
Perché è una questione contemporanea?
«La situazione è peggiorata a furia di frequentare l’informatica. Il cervello si è abituato a pensare come un computer che fa 0 e 1, esiste “sì”, “no” e al massimo “non so”. Ma con un codice binario non riesco a interpretare il mondo».
Ci mancano gli strumenti.
«L’unica antitesi al potere si chiama cultura. In Italia la scuola va malissimo, e al potere va benissimo così. Quando l’umanità diventa gregge, vuole l’animale capo. Ma è qualcosa che va anche oltre l’Italia. Non è un caso che una delle prime mosse di Trump sia stata togliere i finanziamenti alle università che non seguivano le sue idee. Non c’è più un atteggiamento critico in giro, ogni opposizione viene perseguitata o ignorata dal potere».
Mi spiega in che modo?
«Quando non funziona le persuasione, subentra la forza. E inizia l’operazione di negazionismo che Freud aveva interpretato con la parola “verneinung”. Può essere assoluto: dire che la Russia non ha responsabilità sulla guerra. O basato sul discredito: dire che gli immigrati sono tutti delinquenti. Oppure quello più ipocrita: ci rendiamo conto delle 70mila vittime di Gaza ma che altro si poteva fare?».
Questi meccanismi che effetto hanno su di noi?
«Roviniamo il nostro sistema cognitivo perché sappiamo le cose ma neghiamo che esistano. Neghiamo il sistema emozionale perché vediamo le tragedie e non ci toccano, quello morale perché facciamo finta che non ci riguardino. Così è un disastro esistenziale».
Però lei non coltiva la speranza che...
«No, speranze non ne ho perché sono la premessa alla disperazione. Chi si dispera è perché prima ha sperato. Pasolini ha tolto questa parola dal suo vocabolario, e sono d’accordo. È una figura che ci coccola il cuore ma non produce niente».
Ci viene detto di non perdere mai la speranza.
«Purtroppo abbiamo una cultura cristiana – che non è solo una religione ma un modo di pensare – secondo la quale comunque vada il mondo cerco una via d’uscita. Non si fa così. L’età moderna aveva eretto come orizzonte di senso la ragione e aveva come motto: chi pensa bene fa il bene. Ma si è dimostrato che si può pensare in maniera eccellente anche nel male. Proiettare positività senza vedere le radici del male non fa altro che contribuire a farle crescere».
Nell’isola intendiamo l’accezione negativa di essere “isolati”, ma può rivelarsi un bene in questo senso? La società sarda non è ancora contaminata del tutto dalla società al collasso che ha appena descritto.
«In auto ho fatto il percorso da Nuoro a Cagliari, dal finestrino ho guardato la Sardegna interna e mi sono detto che vivrà nella sua bellezza eccezionale finché resta Sardegna e non si mescola alla cultura del continente. È vero che avete dei mezzi di trasporto troppo miseri, ma la tutela del vostro paesaggio può evitare che vi trasformiate in un’unica grande Olbia, cioè una colonia di milanesi ed europei che vi fa diventare una spiaggia utilizzata da tutti quelli che abitano al nord e poi più niente. Perdere le radici in questo caso vuol dire diventare anonimi».
Professore Galimberti, lei bacchetta tanto la società digitale però gli estratti dei suoi video diventano virali proprio nei luoghi digitali, come se lo spiega?
«Ai giovani ho sempre detto la verità. Il loro disagio è culturale, gli abbiamo tolto il futuro, e non è una frase fatta. Che motivazione hanno i giovani per impegnarsi? Non si va avanti se qualcosa ti spinge, ma se qualcosa davanti ti attrae. I professori smettano di dire che gli studenti non hanno volontà e si chiedano se sono carismatici e attraenti. Queste cose le dico e i giovani capiscono di essere fotografati e apprezzano. Mi fa piacere».
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