La Nuova Sardegna

L’intervista

L’assessore alla Sanità Bartolazzi: «Richiamare i medici in pensione è solo una toppa, non la soluzione»

di Claudio Zoccheddu
L’assessore alla Sanità Bartolazzi: «Richiamare i medici in pensione è solo una toppa, non la soluzione»

Il commento dell’esponente della giunta Todde dopo la sentenza della Consulta

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Sassari Lo dice chiaramente: il ritorno al lavoro dei medici in pensione non è la soluzione. Staccare i camici dal proverbiale chiodo per riassegnarli ai legittimi pensionati è una cura palliativa, una toppa. L’emergenza assistenziale resta. L’assessore alla Sanità, Armando Bartolazzi, spiega il suo punto di vista e allega la sua ricetta dopo che la Consulta ha respinto il ricorso del Governo sulla legge regionale che richiamava in servizio i medici di medicina generale ormai in pensione.

I dati del ministero della Salute dicono che l’isola è una delle regioni con il maggior numero di medici in proporzione alla popolazione. Esiste davvero una carenza di medici in Sardegna?

«Secondo l’ultimo report della Fondazione Gimbe per il 2025, in Sardegna ogni medico di medicina generale ha in carico una media di 1.391 assistiti, un dato di poco superiore al rapporto ottimale di 1200 pazienti per medico, ma che non tiene conto di situazioni molto diverse nel concreto da territorio a territorio. Il sovraccarico si fa evidente e pesa in alcuni ambiti territoriali, soprattutto le aree interne e disagiate dell’isola, dove migliaia di cittadini non hanno un medico di famiglia assegnato o lo hanno a molti chilometri di distanza. È esattamente questa situazione di “scopertura dell’assistenza primaria” che la Corte costituzionale ha riconosciuto come emergenza reale, legittimando la scelta della Regione di utilizzare, in modo mirato e temporaneo, i medici di medicina generale in pensione».

Richiamare i medici in pensione risolverà i problemi numerici nella medicina di base?

«No, e lo dico con chiarezza: non è la soluzione strutturale al problema, ed è bene evitare ogni equivoco. L’impiego dei medici in pensione nasce come misura straordinaria, volontaria e a tempo, per “tappare le falle” più gravi, in attesa che vadano a regime le nuove procedure di assegnazione delle sedi e l’immissione dei giovani medici formati; questa misura è stata pensata per garantire continuità di cura ai cittadini che diversamente rischiavano di rimanere senza medico di base, specie nelle aree più disagiate».

Come verranno impiegati? C’è il rischio che possano ostacolare il ricambio generazionale?

«L’impiego dei medici in pensione è stato chiaramente circoscritto ai progetti di assistenza primaria e continuità assistenziale attivati dalle Asl, con un orizzonte temporale definito dalla legge regionale (possono essere “assunti” fino al 31.12.2026, ndr) e valutato legittimo dalla Consulta. Nessun rischio, dunque, di ostacolare il necessario ricambio generazionale: i medici in pensione sono una risposta alla fase di emergenza, non il modello di lungo periodo»

Quanti medici servirebbero per garantire il servizio in tutta l’isola?

«Ritornando ai dati Gimbe, in Sardegna mancano all’appello circa 150 medici di medicina generale per garantire il servizio ottimale. Il fabbisogno, tuttavia, non è un numero fisso, perché cambia in base a pensionamenti, nuovi ingressi, distribuzione territoriale, e soprattutto in base al riassetto complessivo del sistema, che stiamo portando avanti con vigore a partire dalla sigla del recente Accordo integrativo regionale dei medici di medicina generale: una rivoluzione copernicana che cambia l’organizzazione delle cure primarie e riporta la sanità vicina al cittadino. Per riportare il sistema entro soglie sostenibili non servono solo più teste, ma anche più squadra, ed è questo che stiamo facendo, insieme alle organizzazioni dei medici nel territorio».

I sindacati hanno sollevato un dubbio: i medici potrebbero andare in pensione prima per poi tornare al lavoro e prendere la pensione e lo stipendio. È una possibilità?

«Capisco la preoccupazione ma è importante precisare alcuni punti perché la misura non è un “invito al doppio stipendio”: è una possibilità solo volontaria e temporanea».

In che senso?

«La normativa regionale, confermata dalla Consulta, consente alle Asl di utilizzare i medici in quiescenza per un tempo limitato e con finalità esclusivamente emergenziali, legate alla scopertura dell’assistenza primaria e della continuità assistenziale. Non è economicamente né professionalmente un “paradiso”: si tratta spesso di incarichi in aree disagiate, con carichi di lavoro complessi; la misura nasce per chi, pur in pensione, sente ancora una forte motivazione etica e professionale a dare una mano in una fase critica del sistema».

Esiste dunque una serie di paletti?

«I paletti ci sono e sono rappresentati da contratti limitati nel tempo e negli ambiti come Ascot, continuità assistenziale, aree scoperte; monitoraggio, attraverso Ares e le Asl dei flussi di pensionamento e di rientro per verificare che non vi siano dinamiche distorsive. Se dovessero emergere criticità, la Regione sarebbe pronta a intervenire adeguando i criteri di conferimento degli incarichi».

Ovvero?

«In sintesi: abbiamo valutato il rischio teorico, ma le caratteristiche della misura, mi riferisco alla volontarietà, alla temporaneità e alla destinazione in contesti spesso complessi, e il monitoraggio continuo ci rendono ragionevolmente fiduciosi che non diventerà un meccanismo di abuso, bensì uno strumento di solidarietà professionale in una fase di emergenza».

Quali altre strategie utilizzerete per superare l’emergenza?

«Il richiamo dei medici in pensione è solo una delle tessere del mosaico. La strategia complessiva della Regione sulla medicina di base si articola su più linee, molte delle quali già in attuazione: il nuovo Accordo integrativo regionale per i medici di medicina generale istituisce le Aggregazioni funzionali territoriali, per far lavorare i medici “in rete”, con orari più estesi e presa in carico continuativa; aumenta le indennità informatiche per i collaboratori di studio, per liberare tempo clinico dal lavoro burocratico; introduce un’indennità di 2mila euro mensili per le zone disagiate in carenza di assistenza, così da rendere più attrattive le aree scoperte; collega una parte della remunerazione agli obiettivi sulle cure domiciliari, rafforzando la presa in carico a casa di anziani e cronici».

Sta dicendo che fare il medico di base in Sardegna sarà più facile?

«L’idea è chiara: rendere la Sardegna una regione dove fare il medico di famiglia sia organizzativamente ed economicamente attrattivo, non un ripiego. E poi la Regione, tramite Ares, sta pubblicando e aggiornando le graduatorie per le sedi carenti di assistenza primaria nel ruolo unico per il 2024 e il 2025; stiamo attivando avvisi per l’assegnazione degli incarichi vacanti con procedure che favoriscano i trasferimenti, gli ingressi dei neoformati in medicina generale, la stabilizzazione dei medici già impegnati con incarichi temporanei. L’obiettivo è trasformare l’emergenza in posti stabili, soprattutto nelle aree interne».

A proposito, il Piano operativo regionale prevede la realizzazione di Case e Ospedali di comunità.

«Le scelte sulla medicina di base sono legate proprio al nuovo modello territoriale delle Case della comunità e degli Ospedali di comunità, dove il medico di famiglia lavorerà fianco a fianco con infermieri di comunità, specialisti, servizi sociali e diagnostica di base. Le linee guida regionali prevedono una presenza strutturata dei medici di medicina generale dentro queste strutture, non come “ospiti” ma come parte integrante dell’équipe. Sono già in corso di elaborazione i percorsi formativi dedicati agli infermieri di famiglia e comunità, con tirocini nelle strutture territoriali. Non stiamo solo riempiendo singoli ambulatori, stiamo costruendo un ecosistema territoriale dove la medicina di base è al centro».

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