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Alessandro “Diablo” Spedicati, dalla musica al decespugliatore: «Ero di moda, ora vivo in campagna»

di Caterina Cossu
Alessandro “Diablo” Spedicati, dalla musica al decespugliatore: «Ero di moda, ora vivo in campagna»

L’ex leader dei Sikitikis si racconta: «Sul palco mi sentivo nudo»

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Si sente un borghese che è andato a vivere in campagna, pur provenendo dalla più classica delle famiglie operaie. Qualche anno fa Alessandro Spedicati ha gettato “Diablo” e il microfono alle ortiche, ha messo in stand by i Sikitikis – riunitisi poi quest'estate per una serie di concerti evento in occasione dei 25 anni dalla nascita della band –, imbracciando cazzuole e decespugliatori, alla ricerca di pace e tranquillità nella campagna dell'Oristanese. La sua rinascita passa dall’account “Una vita quasi country”, dove il cantautore racconta le vicissitudini di un cittadino cagliaritano che si è trasferito con la famiglia in campagna.

Come è successo?

«La scelta è arrivata dopo 20 anni di relazioni pubbliche intensissime, che non so umanamente quanto sia sano avere in una vita così assidue e numerose, dalle più intense a quelle più superficiali, tutte incentrate sul lavoro. Smettere di fare musica ha significato trovarmi davanti a un campo libero e incolto, completamente tutto da rifare, il Covid poi ha rafforzato quelle convinzioni che avevo già. Per una vita, sono sempre stato Spedicati contro se stesso: ho sempre avuto paura delle definizioni di me, appena ne ho raggiunto una, sono fuggito. Anche l’essere artista, l’ho vissuto come una continua ricerca. Oggi mi piacerebbe darmi alla scrittura».

Come ha dosato durante la carriera la dimensione pubblica e quella intima della musica?

«All’inizio ero molto entusiasta e facevo musica per essere capito, quindi per condividere. Col tempo però quell’approccio si è trasformato: la musica e la notorietà mi hanno portato a espormi sempre di più, fino a sentirmi completamente nudo nella mia intimità. È stato come partire corazzato e smantellarmi poco a poco, lasciando sul palco, a ogni esibizione, un pezzo di quel mantello simbolico che mi proteggeva. La cosa più bella però è stata la condivisione di questo percorso: le canzoni sono diventate di chi le ha ascoltate, anche di persone che non ho mai incontrato. Ho vissuto bene anche il lato della notorietà e dell’essere “di moda”, ma il centro è sempre stato il live, vissuto come un rito, una messa, in cui credo che l’artista debba donarsi totalmente, anima e corpo, alla propria espressione».

Gli inglesi li chiamano “guilty pleasure”. In italiano potremmo dire “piaceri colpevoli”. Lei ne ha qualcuno in campo musicale?

«Io ho un’anima pop, anche se per tanto tempo l’ho rinnegata. Quando parte “Like a prayer” di Madonna impazzisco, Claudio Baglioni come songwriter (cantautore, ndc) per me ha vette importanti, così come alcuni testi di Tiziano Ferro. Lui poi ha portato nel pop italiano quelle sonorità black e R’n’B che fanno parte del mio background. Certo, poi sono un ragazzo degli Anni Novanta: i Radiohead per me sono il culto assoluto, ma sono pop, così come i Beatles. Grunge, rock, crossover, punk e commistioni inglesi dell’elettronica come Chemical brothers e Fat boy slim mi hanno cresciuto. Ma c’è tanto altro».

Qual è stato il periodo musicale più importante per lei?

«Certamente quello torinese, quando ho lavorato con i Subsonica. Max Casacci è per me un amico e sarei meno della metà di quello che sono senza le sue influenze, i suoi input. Come dice lui, se hai vissuto bene gli Anni ‘90 non te li ricordi, ma è stato il periodo in cui ho scavato più a fondo in me: dovevo essere alla loro altezza, mi sono dovuto mettere nella condizione di imparare e studiare».

Come stanno gli intellettuali sardi?

«Non ce ne sono molti, non certamente a Cagliari. Gli intellettuali spostano il pensiero, non si limitano a esserne praticanti. Oggi possiamo trovarli in contesti vivi e prolifici come Nuoro o Sassari, Cagliari invece è una città crocevia, dove la cultura è nel contesto e gli ambienti se ne fanno veicolo. È una città con un’anima superficiale, fa gioco a sé e secondo me c’è una Sardegna in questa città e una Sardegna fuori da Cagliari. La sua poesia inconsapevole sta nelle periferie e nei quartieri popolari, da dove vengo anche io. Oggi magari è molto affollata per questioni di over tourism, ma è sempre bella e viverci per me ha voluto dire portare in campagna un’estetica alla quale comunque non voglio rinunciare e adattare al contesto bucolico, nel tempo».

Ha detto che le piacerebbe scrivere, che rapporto ha con la letteratura sarda?

«La letteratura sarda per me è stata un passaggio, ho amato molto scrittori come Satta, Dessì o Atzeni, e riconosco certamente esista una scuola del Novecento. In epoca moderna mi piace molto il filone noir d’inchiesta, che secondo me trova il suo grande spartiacque nel pre e post Massimo Carlotto».

Lei ha viaggiato molto, vissuto in Australia: come vive il fatto che i suoi figli crescano in Italia e nello specifico in Sardegna?

«Nell’Occidente privilegiato, stare in Sardegna è certamente una fortuna, per condizioni geofisiche e bellezza, nella stortura però di vivere in un paese fortemente penalizzato dall’assenza di prospettive, immerso nella paura e appesantito da politiche mai rivolte al futuro. In questa matrioska, spero coltivino le fortune, ma comunque trovino lo spazio per viaggiare e aprirsi al mondo, condizione necessaria per lo sviluppo umano a prescindere da dove si nasce. E spero che vivano per fare un lavoro che li realizzi, non che gli permetta di guadagnare molti soldi». 

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