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Sassari, dalle aule del tribunale alle strade di Manhattan

di Luca Fiori
Sassari, dalle aule del tribunale alle strade di Manhattan

L’avvocato sassarese Luigi Conti tra i 55mila partecipanti alla Maratona di New York

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Sassari Da via Roma a Central Park, dai corridoi del tribunale di via Roma alle strade leggendarie di Manhattan, il passo può sembrare infinito. Ma per Luigi Conti, avvocato penalista sassarese di 43 anni e padre di due bambini, quel passo è diventato un sogno realizzato: correre e concludere la Maratona di New York, insieme a 55mila partecipanti. Domenica 2 novembre mentre il keniano Benson Kipruto trionfava in 2.08.09 e la connazionale Hellen Onsando Obiri vinceva tra le donne in 2.19.51, il legale sassarese meno di due ore dopo ha tagliato il traguardo di Central Park con il cuore gonfio d’orgoglio e un dignitosissimo tempo di 3 ore e 56 minuti.

«Quando ho attraversato il ponte Verrazzano e ho visto Manhattan sullo sfondo – racconta Luigi Conti – ho capito che non era solo una corsa. Era un sogno che diventava realtà, passo dopo passo.» Quel sogno è nato a Sassari, tra un’udienza e l’altra, tra i fascicoli del tribunale e le notti spezzate dai figli piccoli. Allenarsi con i ritmi di un avvocato è quasi impossibile. Lo fai quando puoi, all’alba, prima che la città si svegli, o la sera tardi, quando tutto tace e solo i tuoi passi risuonano per viale Dante o viale Italia. È lì che Luigi preparava la sua sfida, immaginando i grattacieli di New York al posto dei palazzi sassaresi.

A Brooklyn la fatica si trasforma in festa, con musica jazz, cori gospel e bambini che tendono le mani. «Ti senti dentro un film – dice il penalista – leggi cartelli come “Chuck Norris never ran a marathon” o quello di Super Mario con il fungo magico, e ti carichi di energia». Al 21esimo chilometro, nel Queens, il percorso segna il giro di boa. «È lì che ho sentito un fastidio al fianco che mi ha rallentato – racconta – ma ho cercato di gestirlo, sapendo che la parte più dura doveva ancora arrivare».

Il momento che mette quasi tutti in crisi è il Queensboro Bridge, il ponte che collega il Queens a Manhattan: oltre un chilometro di ascesa con una pendenza decisa e senza pubblico. «È un tratto silenzioso, interminabile, senti solo il battito del cuore e il rumore delle scarpe. È lì che la stanchezza vera arriva e ti mette alla prova». Poi, d’improvviso, la discesa e la folla di First Avenue che esplode in un boato. «Gridano il tuo nome, ti spingono avanti, e capisci che non puoi fermarti». Gli ultimi metri dentro Central Park sono un miscuglio di dolore e magia. «Ho visto il cartello “400 meters to finish” e ho capito che ce l’avevo fatta. Le gambe non rispondevano più, ma l’anima sì».

Poi la medaglia: fredda, pesante, bellissima. «Questa medaglia non è solo mia. È prima di tutto della mia famiglia – Manuela, Sofia e Alessandro – che hanno sopportato sveglie all’alba, scarpe da corsa ovunque e interminabili discorsi su ritmi, chilometri e integratori. È di mia madre e di mio padre, che si sono preoccupati per me, ricordandomi ogni volta di non esagerare e di fermarmi se la fatica fosse troppa. È di Gianluigi, che ha condiviso con me il viaggio e l’emozione di New York. È di Sergio, che mi ha fatto conoscere la corsa e mi ha convinto, un anno fa, a inseguire questa follia chiamata maratona. Ogni passo, ogni salita e ogni chilometro portano un po’ di tutti loro».

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