La Nuova Sardegna

L’intervista

Sigfrido Ranucci: «Dalla Rai poco rispetto ma Report tornerà più forte»

di Alessandro Pirina
Sigfrido Ranucci: «Dalla Rai poco rispetto ma Report tornerà più forte»

Il giornalista a Saccargia per Liquida: «La mia prima inchiesta fu sullo Zecchino d’oro. Fellujah e Borsellino gli scoop più grandi. Oggi querele e leggi ci intimidiscono»

24 luglio 2024
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Il suo tour sardo è cominciato ieri a Macomer, al festival Forse alla luna. Oggi sarà a Saccargia per Liquida, domani a Olbia. E poi sabato ad Alghero al festival Dall’altra parte del mare. Dal 28 si sposta al sud: Narcao, Iglesias, Portoscuso, Cagliari. E ancora il 1 agosto a Perdasdefogu al festival SetteSere SettePiazze SetteLibri, il 2 a Ghilarza, il 3 ultima tappa a Quartu. Insomma, Sigfrido Ranucci, volto e firma di Report, simbolo del giornalismo italiano d’inchiesta degli ultimi trent’anni, batterà la Sardegna da nord a sud per fare conoscere “La scelta”, il libro edito da Bompiani in cui racconta il suo percorso, le sue inchieste, gli ostacoli che ogni volta lui e la squadra devono superare.

Ranucci, fare il giornalista è stata una scelta?

«Fin da ragazzo ho sempre avuto la passione di raccontare. Una passione infusa da mia madre che era una insegnante. Grazie a lei ho sviluppato una grande capacità di memoria tanto che oggi sono rimasto l’unico conduttore che va a braccio. La passione è nata così, mentre il fatto di occuparmi del malaffare deriva da mio padre, sottufficiale della guardia di finanza, che mi ha catechizzato al bene comune e alla lotta per la legalità».

Chi erano i suoi idoli?

«Entrando in Rai ho avuto la fortuna di saccheggiare l’archivio. Quindi penso alle inchieste di Brando Giordani, Ugo Gregoretti, Enzo Biagi, Sergio Zavoli».

La sua prima inchiesta?

«Sullo Zecchino d’Oro. Si parlava di Opus dei, di meccanismi strani. Ma venni subito richiamato in redazione».

Report è il suo marchio. Qual è la forza del programma?

«Bisogna dire che nasce da un’idea straordinaria di Milena Gabanelli, che ha portato avanti questo progetto, facendolo arrivare all’apice della tv mondiale. È un esempio unico, rimasto fedele alla mission originaria, al romanzo dei fatti, avendo come unico editore il pubblico che paga il canone. E il successo è stato proprio questo: essere rimasti fedeli a noi stessi e un grande lavoro di squadra».

Come è cambiato il giornalismo d’inchiesta?

«Oggi resiste anche ai tentativi di imitazione. Abbiamo avuto anche esempi patetici in Rai, prima con il videogiornalismo, poi trattando i temi in maniera omeopatica. Ci sono stati tentativi di scimmiottare anche la scenografia. Ma Report è più forte di tutto questo. Ciononostante dobbiamo sottostare a spostamenti di orario, di giorno. Noi vorremmo pensare esclusivamente al prodotto e andare in onda in situazioni più protette, ma questo non avviene. Ce ne faremo una ragione e quest’anno faremo una trasmissione ancora più forte e inattaccabile».

Non è andato alla presentazione dei palinsesti. In questa Rai si sente una mosca bianca?

«Non sono andato perché da due o tre anni c’è la sensazione che questa trasmissione non sia supportata ma sopportata. Agli ultimi arrivati vengono messi tappeti rossi, mentre noi veniamo spostati. Mi dispiace, non c’è il rispetto per una squadra e per una storia. Non lo dico mai, sono il giornalista più premiato della storia della Rai, ma nei nostri confronti non c’è rispetto, solo insofferenza».

L’inchiesta di cui è più fiero?

«Sono veramente tante. A livello personale sono state fondamentali quelle che descrivo nel libro: da quella di Fallujah, quando scoprii l’uso di armi chimiche al fosforo bianco, uno scoop che fece fare alla Rai il giro del mondo, al ritrovamento dell’ultima intervista a Borsellino, alla pinacoteca di Tanzi. All’epoca avevo un grande direttore come Roberto Morrione. Uno che difende il rigore del giornalista».

Una non portata a termine?

«Prima di prendere la conduzione di Report stavo indagando sul tesoro di Gheddafi e sui misteriosi audio con le registrazioni dei politici ospitati nelle sue tende. Non sono mai riuscito a realizzarla. Non so se fosse una pista farlocca o se qualcuno avesse usato il nome di Report per alzare il prezzo».

In questi anni si è occupato anche di Sardegna.

«Tante volte, sul Covid, Solinas. Inchieste che mi sono valse querele, denunce. Alcune sono state archiviate, per altre è stata richiesta l’archiviazione».

Oggi è sempre più difficile fare giornalismo d’inchiesta.

«In Italia ci sono 270 giornalisti sotto tutela, 22 sotto scorta, me compreso. C’è il record di politici che denunciano i giornalisti. Noi ne riceviamo da tutto l’arco costituzionale. Un partito, Fdi, ci ha denunciati. Ci ha querelati il ministro Urso, lo stesso che firma il contratto di servizio dove c’è scritto che bisogna valorizzare il giornalismo d’inchiesta. Gasparri si è fatto riprendere mentre firma la mia denuncia. Se queste non sono intimidazioni cosa sono? E poi le leggi liberticide, dal carcere per i giornalisti al divieto di pubblicare l’ordinanza. Come direbbe Tonino Carotone, è un mondo difficile per i giornalisti d’inchiesta».

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