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Il regista Paolo Zucca: «Sul film “La vita va così” troppe critiche ingiuste»

di Caterina Cossu

	Paolo Zucca sul set con Stefano Fresi e Francesco Pannofino (foto Francesca Ardau)
Paolo Zucca sul set con Stefano Fresi e Francesco Pannofino (foto Francesca Ardau)

«Il film di Milani ha staccato più biglietti di “Avatar”: ha il merito di avere portato certi temi al grande pubblico»

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Il suo nuovo film è top secret: «Non posso anticipare nulla, solo che le riprese, incrociando le dita, partiranno in primavera, e ne sono terrorizzato. È un sentimento che provo sempre prima di girare, è un progetto molto importante e sento una grande responsabilità. Spero, da qui a qualche mese, di trasformare il timore in impegno e lavoro, per arrivare sul set più preparato che terrorizzato». Il regista Paolo Zucca ha tre gioielli in cassaforte: l’acclamatissimo lungometraggio d’esordio del 2013, L’arbitro, che ha fatto sognare tra storie di pallone e l’utilizzo del bianco e nero. Poi nel 2019 arriva L’uomo che comprò la luna, e tutta Italia scopre quanto è magica la location di S’Archittu, nella costa ovest della Sardegna. Nel 2023 ha poi spiazzato il pubblico e la critica, in sensi innumerevoli, con il suo ultimo lavoro Vangelo secondo Maria, girato tutto in Sardegna.

Quanto Paolo Zucca c’è nelle sue pellicole?

«Paradossalmente moltissimo: un film coinvolge centinaia di persone nella sua lavorazione e ideazione, come nel mio caso Geppi Cucciari o Barbara Alberti. Ma finisce sempre per assomigliare al regista, ed è una cosa molto comune. Se dovessi descrivere i miei film, penso di trovarci il carattere dell’originalità, che riconosco al mio modo di essere e alla ricerca che faccio di discostarmi dalla banalità. E anche la condizione della “politonalità”, e cioè la molteplicità e la varietà dei toni narrativi».

Cosa le piace raccontare di più?

«Credo che la commedia sia quella che mi riesce meglio. Ho tentato con Vangelo secondo Maria di tenere un tono drammatico, ma non sono riuscito a non far scappare un po’ di ironia nemmeno lì. Senza ironia, dopotutto, non c’è sopravvivenza, e in tempi come questi di guerra e idiozia diffusa sarebbe impensabile non ricorrervi. Non sono però uno che prende le cose sottogamba o minimizza, anzi. Tendo a prevenire i problemi sul lavoro, tento di tenere sotto controllo l’incontrollabile, e un film lo è per sua natura. Parafrasando un’intervista celebre di Fellini, se i film venissero esattamente come li ho pensati sarebbe un serio problema. Farli meglio è sempre l’aspirazione».

Vuole entrare un momento con me nel polverone scatenato attorno a La vita va così?

«Partirei da Anna, il film di Marco Amenta, per il taglio drammatico e sociale dato alla vicenda di Ovidio Marras, reinterpretata dalla bravissima Rose Aste: chapeau. Ma non vedo perché non si possa raccontare la stessa vicenda con il taglio della commedia, come ha fatto Riccardo Milani. Tolto il film di Natale di Checco Zalone – che gioca un altro campionato – sarà comunque il primo o il secondo film più visto dell’anno; in Sardegna poi ha staccato più biglietti di Avatar e destato ovazioni in sala. Quindi qualcosa di buono questo film ce lo deve pur avere: aver parlato il linguaggio del grande pubblico, aprendo un dibattito su questioni ecologiste e identitarie. Le critiche poi, a mio parere, hanno spesso sbagliato bersaglio».

E cioè?

«Nella mia bolla social, che è molto legata alla Sardegna e ruota attorno ai temi a me cari, come la politica culturale, l’archeologia e il turismo, ma anche l’indipendentismo, la polemica è davvero sfuggita di mano. Molti di quelli che criticano, dichiarano candidamente non aver visto il film. Le critiche feroci scaturiscono spesso da frasi attribuibili alla macchina promozionale del film, non dal suo contenuto o da dichiarazioni del regista. Così come non era mia la definizione della “Madonna ladra e femminista”, non credo sia attribuibile a Milani, o alle istanze propugnate dal film, la dichiarata dicotomia tra tradizione e progresso che tanto ha infiammato gli animi. Lo stesso discorso vale per la “mascottizzazione” presunta dell’attore-pastore, peraltro assolutamente convincente nel suo ruolo: è qualcosa che esula dal contenuto dell’opera cinematografica».

Che rapporto hanno la Sardegna e il cinema?

«Credo che il cinema sardo abbia vissuto una fase di grande crescita, sia quantitativa che qualitativa, negli ultimi quindici anni, da quando cioè è entrata in vigore una specifica legge sul cinema. Alcuni autori sono cresciuti, altri hanno esordito e si stanno affermando con grande carattere. Stanno emergendo con forza anche gli attori sardi: penso per esempio al cast quasi completamente sardo del Mostro di Stefano Solima, e cioè la Champions League della serialità cinematografica. Hanno tutti dato prova di grande professionalità e talento, ma in particolare mi ha colpito un attore che non conoscevo, Antonio Tintis».

Nello specifico, cosa potrebbe cambiare da parte della Regione?

«Attualmente l’assessorato alla Cultura sostiene i film di interesse culturale regionale attraverso la Legge Cinema, e la Film commission si occupa di supportare produzioni con un orientamento più industriale. Un nuovo fondo per le grandi produzioni sarebbe poi appena nato, legato al Turismo. Insomma, non siamo nelle condizioni di strapparci i capelli per la disperazione, ma un incremento sostanziale dei fondi destinati alla Legge Cinema consentirebbe di sostenere meglio opere diverse, dalle grandi produzioni con dei forti player alle spalle, come Rai, Sky o Netflix, ai film indipendenti prodotti da società e autori più vicini al territorio. La Regione può finanziare i film solo parzialmente, al massimo per il 35 per cento del budget, quindi i soldi che un film porta in Sardegna sono sempre molti di più di quelli che prende. Va anche detto in modo chiaro che non dovrebbe esistere la cinematografia di cittadinanza».

Il cinema non può farlo chiunque, dunque?

«Direi di no: io stesso ho fatto tantissima gavetta, ho dovuto guadagnarmi lo spazio con il coltello tra i denti prima di avere la mia grande chance. Ed è giusto arrivarci con cognizione e sacrificio, perché bisogna essere consapevoli di cosa si fa».

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