Ivan Cattaneo: «David Bowie antipatico: era geloso di me. Io creavo il mio look, oggi Achille Lauro e i Maneskin vestono griffati»
Il cantautore si racconta: gli esordi a Londra, il coming out, il successo in Italia, la pittura, i reality e il legame con la Sardegna
Eccentrico, creativo, trasgressivo. Un artista fotografia di un’epoca. Ivan Cattaneo è il simbolo di un decennio che aveva virato sugli eccessi. Nella vita, nella cultura, nel look, nell’arte. D’altronde, lui è uno che ha diviso la sua carriera tra le sue due passioni: il cantante e il pittore. E domenica 28 dicembre alle 18 sarà a Lodine dove, accanto a Tenores e gruppi folk e con Giuliano Marongiu e Roberto Tangianu, porterà sul palco la sua arte declinata tra musica e pittura.
Ivan, da bambino cosa sognava di fare?
«Il pittore. Già a 12-13 anni scartabellavo, dipingevo, ritagliavo, facevo occhi, bocche. Infatti, ho fatto il liceo artistico e sono uscito con il massimo punteggio: 60/60. Alla maturità presentai una comparazione tra Andy Warhol e Mike Bongiorno».
Quando è entrata la musica nella sua vita?
«Leggermente dopo. Verso i 16 anni ho iniziato a suonare la chitarra e ho cominciato ad appassionarmi alla musica. Non la solita, ma vocalizzi, cose sperimentali che si avvicinavano alla pittura».
Le sue passioni musicali?
«Il primo disco che comprai fu “Penny Lane” dei Beatles. Poi il “diciannovesimo esaurimento Rolling”. Da bambino, però, il mio idolo era Rita Pavone: mia mamma mi comprava i dischi».
Lei fece coming out giovanissimo a una società ancora molto chiusa su questi temi.
«Non si chiamava nemmeno coming out, non esisteva il termine. Lo ho fatto perché era inverosimile non farlo. Ero un personaggio di quel tipo, avevo una coscienza politica su quei temi. Ero il cantante del Fuori, il fronte rivoluzionario omosessuale. Io e Mario Mieli fummo tra i fondatori del movimento gay».
Il suo primo palcoscenico?
«A Londra. Ho avuto la fortuna di frequentare la “swinging London”. Conoscevo Mark Edwards, produttore di Jethro Tull, David Bowie, poi degli U2. Lui mi ha un po’ indirizzato in quella direzione, anche se non ero pronto, la mia musica era ancora acerba, molto strana».
Ha conosciuto Bowie?
«Un pomeriggio a Portobello, doveva incontrarsi con Mark Edwards e io ero con lui. Ancora non era molto famoso. Non ne ho un bel ricordo, molto antipatico. Era geloso che io frequentassi Mark. Grande artista ma umanamente non lo ho mai capito. Meglio Cat Stevens».
Il primo a credere in lei?
«Nanni Ricordi, il padre di tutti i cantautori: Gino Paoli, Umberto Bindi, Enzo Jannacci, Fabrizio De André. Io fui l’ultimo che lanciò, con me voleva fare il cantapittore. Ci aveva provato anche con Paoli, anche lui dipingeva. Ma non è mai riuscito a unire le due cose: musica e pittura sono simili ma restano due mondi lontanissimi».
Com’era accolto il suo look?
«A Londra era tutto permesso. Non mi preoccupavo di cosa pensasse la gente. Oggi sono più attento, anche se ora credono tutti di essere stravaganti. Vai al supermercato e la commessa ha il piercing o il tatuaggio. Oggi mi colpiscono di più i barboni o le suore laiche».
Tornato in Italia creò il look della prima Anna Oxa.
«Ero tornato per la seconda volta da Londra e qui in Italia il punk non si sapeva cosa fosse. E creai su di lei quel look punk. Ma preciso: solo il look. Sulla canzone non c’entro nulla, non era neanche punk».
Con “Polisex” arriva il suo grande successo.
«Ai tempi non c’erano modelli precisi su amori che oggi definiamo fluidi, lgbt. Non c’era quel tipo di modello che c’è oggi e ho preso in prestito un termine freudiano. Musicalmente è nata con sovrapposizioni di voci che poi Mina ha ripreso per “Plurale e singolare”».
Cattaneo, Camerini, Zero, Rettore, Bertè siete le icone di quegli anni. Come era il rapporto tra voi star dell’epoca?
«Non ci si sentiva, non ci si vedeva. Eravamo talmente presi dal nostro lavoro. Anche Loredana Bertè ha detto che lei gli anni Ottanta non se li ricorda: “eravamo sempre in giro a lavorare”. Alice, mia carissima amica oggi, ai tempi neanche la conoscevo. Io vedevo Renato Zero alla Rca, ma non ci frequentavamo. Giusto un po’ con Alberto Camerini o Eugenio Finardi».
È stato il primo a scoprire il revival: gli artisti rivisitati l’hanno ringraziata?
«L’unico fu Edoardo Vianello, che mi raccontò di essere finito in buco nero e fu svecchiato da questa mia operazione di archeologia moderna».
Ha mai pensato a Sanremo?
«Ricordo Gianni Ravera che mi supplicava nel 1983 di andare al festival, ma non mi interessava, non ne avevo bisogno, ero già conosciutissimo. Poi quando ho avuto bisogno io del festival mi hanno snobbato».
Perché a un certo punto si è fermato?
«Ma non mi sono ritirato. Per la massa forse è stato così. A un certo punto avrei dovuto continuare a fare revival, ma non mi interessava più. Ho ripreso a fare il pittore. I miei mercanti d’arte sono gli stessi di Lodola, Nespolo, Schifano».
Cosa l’ha spinta ad accettare i reality?
«Ho fatto “Music farm” perché non c’erano più programmi di musica. Ne ho un ricordo meraviglioso: c’erano la Bertè, Riccardo Fogli, i Ricchi e Poveri. Il Grande fratello e l’Isola li ho fatti invece per soldi».
Rimpianti?
«Nessuno, e non solo nella mia carriera. È andata così, cose spiacevoli comprese».
Gli incontri della sua vita?
«Nanni Ricordi innanzitutto. Ricordo una notte a casa sua Maria Callas che spadellava a mezzanotte in cucina con Leonard Bernstein: erano appena tornati dalla Scala e non avevano trovato ristoranti aperti. E poi Caterina Caselli, che ha contributo a creare i miei dischi revival».
Ivan e la Sardegna.
«Un legame bellissimo. La prima volta avevo appena finito il liceo artistico e andammo a Santa Teresa. Atterrammo a Olbia e incontrai Gian Maria Volonté: impazzivo per lui. Un’altra volta a Porto Cervo ero già famosissimo, i ragazzini mi correvano dietro e ricordo che c’era Paolo Villaggio che mi guardava con invidia. E poi Sanluri, dove ho tanti amici: lì ebbi i miei primi fan».
C’è un nuovo Ivan Cattaneo?
«In giro vedo tante imitazioni: Achille Lauro, i Maneskin, Rosa Chemical. Ma loro non è che imitano Ivan Cattaneo, ma quell’epoca che non si ripeterà mai più. Loro sono tutti firmati da capo a piedi, noi ci vestivamo da soli. Forse Lucio Corsi ricorda un po’ me e Camerini. Il resto è solo un fattore di moda».
