Filippo Tortu si racconta: «Sono nato in Brianza ma l’isola ce l’ho tatuata sulla pelle»
L’intervista con l’olimpionico: «Sono un tifoso e anche un talismano della Dinamo, ogni volta che vado a vederla vince»
La Sardegna tatuata sulla pelle, la Sardegna nei ricordi di bambino pieno di sogni e nel presente da campione affermato, nella valigia quando va in trasferta, nei pensieri quando ha voglia di staccare e stare con se stesso. Filippo Tortu corre veloce, ma quando ha voglia di rallentare il suo striscione del traguardo è posizionato sempre qui. Il suo rapporto con l’isola va ben al di là di un cognome che finisce con la “u”. «In Sardegna è nato mio padre – dice il campione olimpico della 4x100 di Tokyo, primo italiano di ogni tempo a scendere sotto i 10” nei 100 metri piani –, anche se io sono nato e cresciuto in Brianza, nell’isola ho trascorso lunghissimi periodi sin da quando ero in fasce, lì ci sono le mie radici e il mio rifugio quando ho bisogno di staccare. Lì trovo tante persone alle quali voglio bene e anche tantissimi ricordi. Anche il mio primo bacio».
 Da quale ricordo partiamo?
 «Il mio battesimo dell’aria: agosto 1998, due mesi di età, volo Milano-Olbia». 
 Questo però come ricordo non vale. 
 «È vero, ero troppo piccolo, ma di questa cosa in famiglia si è parlato tante volte. Allora partiamo dalle sensazioni che mi sono rimaste di quando dormivo in spiaggia. Il rumore delle onde e la calma di una spiaggia poco affollata è tuttora la cosa che più mi rilassa e mi fa sentire bene». 
 In che spiaggia siamo?
 «Baia Caddinas, Golfo Aranci. Dalla mia camera con la finestra aperta si sente il fruscio delle onde, in estate a volte dormo direttamente in terrazzo per godermelo meglio». 
 È uno dei suoi luoghi del cuore?
 «Il principale. Golfo Aranci per me ha un significato particolare anche perché i miei genitori si sono conosciuti proprio lì. I miei nonni materni sono brianzoli e negli anni Settanta hanno iniziato ad andare là in vacanza. Lo stesso faceva la famiglia di mio papà Salvino, che è di Tempio. E insomma, senza Golfo Aranci oggi con tutta probabilità io oggi non ci sarei. In compenso in 27 anni non ho saltato una sola estate». 
 Viene solo in estate?
 «Soprattutto, ma non solo. Dipende dai cicli degli allenamenti, spesso sono là per diversi giorni anche in primavera e in autunno. Certo i tempi in cui venivo con mia nonna paterna alla fine delle scuole e stavo in Sardegna per tre mesi filati purtroppo sono finiti». 
 Cosa facevate?
 «Cose normali, bellissime. Bagni, gite in barca, partite a calcio infinite a qualsiasi ora, esplorazioni con le comitive di cugini e di amici». 
 Locali notturni?
 «Zero. Quando ho iniziato ad avere l’età per frequentare le discoteche dovevo già fare una vita da atleta». 
 Fidanzatine?
 «Il mio primo bacio l’ho dato proprio in Sardegna. Fu con una ragazza che si chiama Benedetta, metà sarda e metà romana. Andammo sulla terrazza sopra il tetto di casa sua». 
 Quali sono gli altri punti di riferimento che ha in Sardegna?
 «Tempio, innanzitutto. L’antica insegna di quella che fu la tipografia di famiglia mi fa sempre emozionare. Sono di casa sulla pista del Fausto Noce, a Olbia, dove mi alleno spesso. Ma i miei punti di riferimento non sono soltanto i luoghi, sono soprattutto le persone». 
 Per esempio?
 «La comitiva degli amici di mio padre con i quali da sempre, ogni anno andiamo a Luogosanto a fare un grande spuntino nello stazzo di Elio Balata. Sono persone che mi conoscono da sempre, che mi hanno visto crescere. Si mangia tanto, si ride, si parla in gallurese. Lì sono davvero a casa». 
 Come se la cava col dialetto?
 «Male. Credo di capirlo abbastanza, ma non sono in grado di parlarlo. Un vero peccato, a volte rinfaccio a mio padre di non avere comunicato con me in gallurese quando ero piccolo. Però ho imparato qualche proverbio». 
 Tipo?
 «Mi piacciono i proverbi sugli asini. A Bosa c’è Mario Ruggiu, che mi ha seguito come fisioterapista per tanti anni. E lui ogni tanto ne snocciola uno nel suo dialetto. Anche Bosa per me è un posto speciale: vado spesso a trovare Mario, a volta prendo l’aereo la mattina presto da Milano e vado da lui. E poi torno su la notte. Adoro stare con la sua famiglia, e anche il tragitto in macchina da Olbia o da Alghero per Bosa, lungo le strade provinciali, è un momento che mi piace godermi». 
 Col cibo come siamo messi?
 «Adoro i piatti di mare. In cima alla lista delle mie preferenze c’è la zuppa di cozze, seguita dalla fregula. Spesso andiamo in un agriturismo a Monti e lì c’è solo l’imbarazzo della scelta». 
 Alle Olimpiadi di Tokyo aveva la bandiera dei Quattro mori, e nella foto di gruppo dei sardi dell’atletica c’è anche lei... 
 «Beh, la Sardegna ce l’ho anche tatuata sul fianco sinistro. Non ho altri tatuaggi, perché non sono un grande appassionato, ma quella ce la siamo fatta uguale io, mio padre e mio fratello. La bandiera la porto sempre con me quando viaggio. E a Tokyo è stato bellissimo condividere quell’esperienza con Patta, Spissu, Kaddari e tutti gli altri». 
 Con lo sport sardo come siamo messi?
 «Avendo giocato a basket per tanti anni sono un grande tifoso della Dinamo. Di più, per tanti anni sono stato un amuleto, perché tutte le volte che sono andato a vederla giocare al Forum ha sempre vinto. Quando facevano la preparazione estiva in Gallura andavo regolarmente a trovarli». 
 Lei è anche un grande appassionato di calcio. Segue le squadre sarde? 
 «Certamente. Mio padre è un grande tifoso del Tempio e della Torres, quindi da sempre sono aggiornatissimo su tutto quello che riguarda queste due squadre. Seguo con interesse anche il Cagliari. Mi è capitato di vederlo giocare alla Domus e ho ricevuto una bellissima accoglienza. Però è giusto sottolineare che a casa siamo tutti juventini». 
 Cosa le dicono i sardi che incontra in giro per il mondo?
 «Ne incontro ovunque ed è sempre molto piacevole: per prima cosa mi dicono di dove sono, poi mi ringraziano perché li rendo orgogliosi. E questo rende orgoglioso anche me, perché pur non essendo nato in Sardegna è soprattutto grazie alle persone che sento parte di questa fantastica comunità». 
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