La Nuova Sardegna

L’intervista

L’infettivologo Matteo Bassetti: «In Sardegna sanità di serie B, per essere curati bisogna nascere e vivere nella regione giusta»

di Massimo Sechi
L’infettivologo Matteo Bassetti: «In Sardegna sanità di serie B, per essere curati bisogna nascere e vivere nella regione giusta»

La morte della donna di Carbonia, dopo due settimane in pronto soccorso con un femore rotto, è diventato un caso nazionale

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Sassari È diventato un caso nazionale la morte in corsia della donna di Carbonia deceduta dopo essere rimasta per quasi due settimane in pronto soccorso con il femore rotto. Uno dei primi a intervenire è stato il professor Matteo Bassetti, infettivologo e direttore della Scuola di specializzazione in Malattie infettive dell’università di Genova. «Dodici giorni in un pronto soccorso per attendere un posto letto sono semplicemente inaccettabili», ha commentato sui suoi profili social. «Aspettiamo la conclusione delle indagini – precisa – ma, se le circostanze venissero confermate, sarebbe un fatto che va contro ogni standard di assistenza che dovrebbe valere in tutta Italia».

Cosa l’ha colpita di più leggendo la notizia di quanto accaduto a Carbonia?
«Il pensiero che nel 2025 possano ancora esistere cittadini di serie A e di serie B a seconda della regione in cui vivono. Non può essere accettabile che una persona a Carbonia riceva cure diverse rispetto a chi si trova a Torino o a Roma. Il nostro deve essere un sistema sanitario unico, equo, garantito per tutti».

Ci sono differenze così grandi tra una regione e l’altra?
«Purtroppo, in generale e andando oltre il caso specifico la risposta è sì. Esistono dei livelli minimi di assistenza fissati dal Ministero della Salute – tempi di transito in pronto soccorso, assegnazione di un posto letto, tempi per un intervento chirurgico – che dovrebbero valere ovunque e invece spesso non è così. Se in alcune strutture o regioni questi standard non vengono rispettati, è necessario intervenire. Il cittadino deve ricevere lo stesso tipo di assistenza, ovunque si trovi».

A suo parere il problema nasce con la regionalizzazione della sanità?
«In parte sì. Siamo passati alla sanità gestita dalle Regioni senza una regia centrale forte. Ognuna ha preso la propria strada e quando si è cercato di uniformare, forse era già troppo tardi. Oggi servirebbe un centro garante della qualità e dell’equità dei servizi. Agenas già fa un lavoro importante, ma bisogna rafforzare questa funzione di vigilanza».

Lei parla spesso di “meritocrazia” nella sanità. Ritiene che non sempre il criterio del merito venga applicato correttamente?
«Credo che serva una sanità meno politicizzata e più meritocratica. Bisogna premiare chi lavora bene, chi garantisce qualità e risultati, non chi risponde a logiche di appartenenza. È una questione culturale e organizzativa. Nelle aziende private di qualsiasi settore chi non fa bene il proprio lavoro viene sostituito; nel pubblico dobbiamo avere il coraggio di applicare lo stesso principio».

Questo vale anche per le responsabilità nei casi gravi come quello di Carbonia?
«Assolutamente sì. Tengo ancora a precisare che bisogna capire bene cosa sia successo a Carbonia, però una cosa è certa: il cittadino deve sapere che, se qualcosa non ha funzionato, qualcuno ne risponderà. È anche una questione di fiducia. Noi medici abbiamo già la responsabilità diretta quando sbagliamo una diagnosi o una terapia: lo stesso deve valere per chi gestisce il sistema. Se si accerta che un errore organizzativo è stato compiuto ed ha contribuito a un dramma, è giusto che chi ha sbagliato paghi».

Che cosa si salva del nostro sistema sanitario?
«Sicuramente più di un elemento. Tra l’altro in alcuni casi la regionalizzazione ha dato anche risultati positivi. In altri invece no e ha aumentato le distanze tra una regione e l’altra, portando anche all’aumento del cosiddetto esodo sanitario. C’è poi un altro aspetto da sottolineare, l’Italia resta uno dei Paesi con la maggiore aspettativa di vita: abbiamo un numero molto alto di ultracentenari e da questo punto di vista la Sardegna ha numeri molto alti, un risultato che dimostra quanto la sanità pubblica abbia funzionato. Ma oggi serve un cambio di passo. Il modello del 1978, poi rivisto con la riforma Bindi, va aggiornato: meno politica, più merito, più efficienza. Solo così potremo evitare che tragedie come quella di Carbonia si ripetano».

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