Omicidio Cinzia Pinna, la criminologa Camerani: «Ragnedda un manipolatore con senso di onnipotenza» – L’intervista
L’esperta analizza il profilo psicologico dell’omicida di Conca Entosa
Sassari. C’è chi parla di un mostro e chi di una vittima. Chiara Camerani (psicologa, specializzata in criminologia e psicopatologia sessuale) che i mostri li ha studiati per mestiere, li chiama “persone alterate”.
Una coppia che si specchia nelle stesse fragilità: lui, l’imprenditore narcisista e cocainomane; lei, la ragazza sola e tossicodipendente. Due vite sregolate. Da una parte l’ego, dall’altra la vulnerabilità. Due solitudini che si urtano nella notte, e in quell’urto si compie l’irreparabile. È lì che tutto si ferma. Un colpo al volto, come a cancellarlo. Il gesto più personale e più feroce. Da quella traiettoria parte l’analisi di Chiara Camerani: «Sparare al viso è un atto di rabbia, non di paura». E ancora: «Quello che vedo è un uomo sopra le righe, non un violento abituale».
Partiamo dall’elemento che più scuote: il colpo sparato al volto della vittima. Che lettura ne dà?
«Sparare al viso è qualcosa di molto forte e molto personale. Non è un colpo di difesa. Sparare alla testa o al viso suggerisce rabbia, intenzionalità e una componente emotiva intensa. È un particolare che stona e che pesa moltissimo nella ricostruzione: ci parla di un atto che trascende la mera perdita di controllo da panico e suggerisce una valenza personale, anche se bisogna restare cauti fino a che non emergano altri elementi».
Dunque l’omicidio sembra avere una carica vendicativa o personale. Possiamo già tracciare un profilo di Ragnedda?
«È presto per un profilo definitivo: siamo ancora nella fase del sensazionalismo e per un’analisi seria servirebbe un esame diretto dell’autore. Detto questo, i dati che abbiamo suggeriscono un uomo narcisista, abituato al consenso e alla posizione di potere: giovane, ricco, amante delle donne, con comportamenti sopra le righe. Non emerge un precedente di violenza abituale, ma il mix di personalità e uso di sostanze può rendere imprevedibile il suo agire».
Si parla di una vita di eccessi. Quanto è rilevante questo nella sua valutazione?
«Gli eccessi descritti - lusso, promiscuità, pistola - sono plausibili per chi vive in un certo contesto sociale. Alcuni elementi come l’elicottero non sono stati confermati e io non seguo il sentito dire. Più rilevante è l’abitudine a imporsi con il proprio status: molte donne hanno raccontato di messaggi sessualmente espliciti e insistenti. Questo quadro non giustifica nulla, ma aiuta a capire una dinamica relazionale basata su potere e prevaricazione simbolica».
Il ruolo delle droghe nella vicenda: quanto può aver influito?
«Molto. L’uso confermato di cocaina altera percezioni, controllo degli impulsi e capacità di interpretare le intenzioni altrui. In presenza di cocaina e alcol si amplificano paranoia, senso di onnipotenza e aggressività: fattori che possono trasformare una lite in tragedia. Non tutti gli assuntori di sostanze diventano violenti, ma il rischio di reazioni sproporzionate aumenta».
Che profilo emerge della vittima, Cinzia Pinna?
«Anche qui cautela: pare fosse una ragazza in un periodo di fragilità - lontano dalla famiglia, con problemi di tossicodipendenza. Alcune fonti riferiscono reazioni impulsive quando era alterata. Comprendere la vittima è fondamentale per ricostruire la dinamica: due persone vulnerabili e alterate possono incrociare comportamenti che si alimentano reciprocamente».
Lei ipotizza quindi una dinamica esplosiva fra i due?
«Sì: immagino una scintilla scatenata in un contesto di alterazione reciproca. Se lei reagiva in modo aggressivo e lui, sotto cocaina, interpretava la cosa come un affronto, la sua risposta potrebbe essere stata non solo difensiva, ma punitiva. Un ego ipertrofico, alimentato da sostanze e da consenso sociale, può scatenare reazioni violente di fronte a quello che percepisce come un’umiliazione».
Dopo l’omicidio, lui coinvolge altre persone per occultare il corpo: che cosa significa questo comportamento?
«Rivela una certa capacità manipolatoria. È riuscito a coinvolgere più persone in una vicenda gravissima, segno di un individuo abile a dissimulare e a mentire. Allo stesso tempo, però, denota anche una scarsa lucidità: non è una pianificazione fredda e razionale, ma una gestione confusa, caotica. Un manipolatore, sì, ma non un calcolatore impeccabile».
Il fatto di aver lasciato il corpo in mezzo ai cespugli, nella sua tenuta, cosa suggerisce?
«Non sappiamo se l’intenzione fosse di tornare più tardi per spostare il corpo. In ogni caso, dobbiamo ricordare che una mente alterata non ragiona secondo logica. C’è un parallelismo che mi colpisce: un noto serial killer inglese disse una volta “voi non sparecchiate subito dopo aver mangiato”. Terribile, ma rende l’idea di una mente che ha perso il senso dell’umanità».
Che ruolo può aver avuto la compagna che lo avrebbe aiutato?
«Non sarebbe la prima donna fragile e innamorata che sceglie di credere alle bugie dell’uomo che ama. Non sappiamo cosa lui le abbia raccontato. Se era un bravo manipolatore, come sembra, è plausibile che le abbia fornito una sua versione dei fatti. Quando amiamo qualcuno, preferiamo credere alla versione che ci fa meno male, anche se è falsa».
La famiglia di Ragnedda ha reazioni diverse: la madre durissima, il padre più protettivo. Che riflessioni trae da questo contrasto?
«Le reazioni familiari sono umane e complesse. La madre, pietrificata dal dolore. Credo sia stata molto coraggiosa. È comprensibile la sua reazione: dolore, incredulità, vergogna. Il padre, al contrario, appare più equilibrato, quasi protettivo. Due modalità diverse di affrontare una tragedia familiare. Non parlerei però di “madre che sapeva”: probabilmente aveva semplicemente perso fiducia nel figlio e non approvava il suo stile di vita».