La Nuova Sardegna

L'intervista

Franco Nero: «Django non mi convinceva, mentre il mio no a Trinità fece la fortuna di Terence Hill»

di Alessandro Pirina
Franco Nero: «Django non mi convinceva, mentre il mio no a Trinità fece la fortuna di Terence Hill»

L’attore a Cagliari per un premio alla carriera si racconta: il cinema, i divi e Vanessa Redgrave

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Come c’è chi accumula timbri sul passaporto, lui colleziona film in ogni parte del mondo. Franco Nero è la star internazionale del cinema italiano, o forse la star italiana del cinema mondiale. Un curriculum che non ha eguali: basta andare su Imdb, la bibbia on line del cinema, e al suo nome corrispondono oltre 240 voci. Per ora, perché la pagina è in continuo aggiornamento. Ed è per questo che oggi a Cagliari alle 17 al Teatro Massimo, al festival “Tre minuti di celebrità”, riceverà un premio alla carriera.

Quanti premi ha ricevuto?

«Credo qualche centinaio».

Il primo?

«Non vorrei sbagliarmi, ma mi sa un David di Donatello».

La Sardegna è una terra che per lei è stata anche un set: su tutti “Sequestro di persona”.

«Al mio fianco c’era Charlotte Rampling, l’avevo scelta io. All’inizio avrei voluto Faye Dunaway, ma costava troppo. Avevo visto un film, “Georgy svegliati”, c’era una ragazza in un piccolo ruolo. Mi piacque e suggerii di prenderla. Con Charlotte ci siamo rivisti da poco a San Sebastian. È stato bello ritrovarci».

Cosa voleva fare da grande?

«L’attore. Quando la maestra chiese chi di noi volesse fare “I ragazzi della via Pàl” io alzai la mano. C’è un detto africano che dice: puoi svegliarti anche molto presto all’alba, ma il tuo destino si è svegliato mezz’ora prima di te. Qualcosa era già nell’aria».

Prima del cinema nella sua vita entra la musica…

«Da ragazzo seguivo tutto. Poi mi sono orientato sul blues. E ogni tanto con Lino Patruno facciamo uno show. Qualche pezzo lo faremo anche a Cagliari».

Quando scocca la scintilla con il cinema?

«Quando stavo a Milano nella stessa azienda in cui facevo il ragioniere, la Edison Volta, lavorava anche Ermanno Olmi. Quando seppe che volevo fare cinema mi disse: “Se vuoi fare l’attore lo devi fare, ma vai a Roma di corsa”. Quelle parole mi rimasero impresse. Avevo 20 anni, ero militare, ma mi trasferii nella Capitale e tutto è cominciato...».

Tra i primi film “La bibbia” di John Huston: per il suo posto era in lizza Paul Newman.

«De Laurentiis voleva lui e Marlon Brando. In quel periodo per sbarcare il lunario facevo l’aiuto fotografo. Fatto sta che alcune mie foto finirono sulla scrivania di Huston e lui disse: “Voglio assolutamente vederlo”».

Poi il grande successo di “Django”. Si aspettava un simile riscontro del pubblico?

«Assolutamente no, quel film è stato una scommessa. C’erano in predicato diversi attori. Due produttori volevano uno spagnolo. Sergio Corbucci voleva me. Rimandarono la scelta a chi metteva i soldi, la Euro International di Fulvio Frizzi, il papà di Fabrizio. Andarono con le foto e lui mise il dito sulla mia. Quando mi hanno dato la notizia ero in auto con Elio Petri. Ero dubbioso sul fare un western, venivo dal Piccolo Teatro, ma lui: “Chi ti conosce?”. E io: “Nessuno”. Ancora Petri: “Allora fallo, non hai nulla da perdere”».

Grazie a “Django” in Giappone diventa una star.

«Quando uscì diventai il numero uno, più di Steve McQueen, Paul Newman, Clint Eastwood. Mi offrirono un sacco di pubblicità, soldi a palate, ma rifiutai. Ero giovane e non sapevo che tutte le star americane facevano spot in Giappone».

A che punto è il progetto “Django vive ancora”?

«Ci siamo andati vicini, ma non si è fatto. Un peccato».

Da Cinecittà a Hollywood: come fu il passaggio?

«Per me era un sogno. In Italia tutti mi volevano, da Corbucci a Blasetti, ma io volevo andare in America. Appena arrivato finii a cena con Frank Sinatra, si era appena sposato con Mia Farrow e avevamo lo stesso agente. La sera stessa mi portò con lui a incidere una canzone, “That’s life”. Appena ho iniziato a lavorare le grandi star venivano a vedere questo giovane italiano che veniva presentato come il nuovo Rodolfo Valentino (ride, ndr)».

In quegli anni ha conosciuto tutti i grandi divi. L’incontro che porta nel cuore?

«Laurence Olivier, il più grande attore di tutti i tempi. Mi disse: “Tu fai sempre il protagonista, sei bello, ti piace fare la star. Gli eroi vincono sempre, ma che monotonia. Se vuoi fare l’attore, cambia ruoli, ci saranno alti e bassi, ma è molto meglio”. Ho seguito il suo consiglio».

Che ricordo ha del primo incontro con Vanessa Redgrave, la donna della sua vita? Sono passati quasi 60 anni…

«Non bello. Io avevo iniziato a girare “Camelot” prima di lei. C’era grande attesa per l’attrice che doveva fare la regina Ginevra. Mi dissero: “Vedrai, è bellissima”. Mi aspettavo una tipo Ava Gardner, Rita Hayworth, Sophia Loren. Invece, si presentò questa ragazza con jeans strappati, lentiggini, occhialetti da vista. L’impressione non fu per niente buona. Dopo due ore nel mio appartamentino trovai un biglietto di Vanessa in italiano: “Franco, vieni a cena da me”. Bussai alla porta di questa villa e mi aprì una donna bellissima: “Cerco, la signora Redgrave”. E lei: “Ma Franco, sono io”».

Giuliano Gemma, Fabio Testi, Terence Hill: c’era rivalità tra voi belli del cinema?

«Da parte mia no, non so loro... In qualche modo sono stato io la fortuna di Terence Hill. Ai tempi di “Django” Enzo Barboni, direttore della fotografia, girava sempre con il copione di “Trinità” sotto l’ascella. Eravamo a Madrid: “Devi farlo, non ci sono sparatorie, soltanto scazzottate”. Poi è successo che mi hanno chiamato negli Usa per “Camelot” e hanno trovato uno che somigliasse a Franco Nero».

In una carriera così ricca c’è spazio per i rimpianti?

«Facevo molti film, ma avevo anche circa 200 offerte all’anno. Ho dovuto dire tanti no».

Il cinema di oggi le piace?

«È cambiato tutto. Oggi i produttori pensano alla tv che mette i soldi. Ai miei tempi c’era più libertà. Qualcosa di buono si fa, ma io in Italia lavoro poco. Negli ultimi 25 anni ho fatto il 90 per cento dei film all’estero».

C’è un motivo?

«Sono curioso. Ho fatto personaggi di 30 nazionalità diverse. Mi mancava quella bulgara e l’ho aggiunta da poco».

Centinaia di ruoli. Chi vorrebbe interpretare ora?

«Mi mancava il Papa e l’ho fatto in un film con Russell Crowe. Ora mi piacerebbe l’allenatore di un boxeur. Dovevo farlo con Castellari e Tarantino, poi non è andato in porto. Chissà...».
 

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