L’ostetrica Giulia Cadeddu, l’importanza di salvare una vita: «Amo lavorare dove c’è bisogno»
Dall’isola alle missioni umanitarie, l’operatrice di Cagliari fra Colombia e Haiti: «Aree molto estese senza ospedali»
Sassari «Mi piace poter lavorare dove c’è più bisogno, essere testimone di realtà che spesso non conosciamo. Al di là della soddisfazione professionale, poter lavorare dove non c’è accesso alla salute e dare un contributo per me è un onore: è una questione di giustizia sociale e di diritti di ogni essere umano».
Giulia Cadeddu è un’ostetrica e operatrice umanitaria. Laureata a Cagliari nel 2014, ha lavorato per alcuni anni in ospedale a Londra, dove ha anche studiato medicina tropicale, prima di iniziare, nel 2018, il suo percorso con Medici senza frontiere. Da 8 anni opera in contesti di emergenza, prima come ostetrica e poi come coordinatrice medica di progetto, occupandosi della gestione complessiva delle attività sanitarie. Ha lavorato in Repubblica Democratica del Congo, Venezuela, Bolivia, Colombia, Haiti, Ucraina, Italia e nel Mediterraneo, partecipando anche a missioni di soccorso in mare.
Quando ha deciso che questa sarebbe stata la sua strada?
«In realtà questo lavoro l’ho sempre voluto fare. Ho scelto questi studi proprio con l’obiettivo di lavorare in ambito umanitario. Sapevo che per arrivarci avrei dovuto prima fare esperienza, quindi dopo la laurea ho lavorato subito in ospedale. Dopo un paio d’anni ho studiato medicina tropicale e mi sono candidata a Medici senza frontiere. La mia prima missione è stata in Repubblica democratica del Congo. Poi sono rientrata e ho lavorato ancora in ospedale, ma a quel punto ho capito che volevo fare solo questo. Sono ripartita e non ho più smesso. Il lavoro in ospedale è bellissimo, ma operare dove c’è più bisogno ha un altro valore».
È appena rientrata da Haiti e dalla Colombia che situazione ha trovato?
«Ad Haiti Medici senza frontiere ha diversi progetti, soprattutto nella capitale, dove si concentra la violenza armata. Io però lavoravo nel sud del Paese, in una zona costiera molto colpita da calamità naturali, per ultimo il terremoto del 2021, ed è anche un’area piuttosto isolata. Non ci sono ospedali di terzo livello. Lì lavoravo in un ospedale materno-infantile di Medici senza frontiere, con terapia intensiva neonatale. Era l’unica terapia intensiva neonatale di tutta la regione».
Cosa significa essere l’unica struttura di questo tipo in un’area così vasta?
«Significa salvare vite. È un ospedale piccolo e non può accogliere tutti, infatti spesso lavoravamo oltre la capacità, ma aveva una sala operatoria attiva 24 ore su 24, con anestesisti e chirurghi. Era salvavita per le donne, grazie ai cesarei d’urgenza, e per i bambini».
In Colombia?
«La Colombia vive un conflitto interno da tantissimi anni. Medici senza frontiere è presente lì da circa quarant’anni e ha lavorato praticamente in tutto il Paese. Io sono stata due volte, in periodi diversi e in zone diverse, ma il contesto è simile: violenza, popolazioni confinate nei villaggi o sfollate nei centri urbani. A questo si aggiunge la migrazione venezuelana, che si vede molto anche in Colombia, come in Bolivia».
Che tipo di assistenza fornivate?
«Facevamo assistenza sanitaria primaria per adulti e bambini, ostetricia e una parte fondamentale legata alla salute mentale, con team multidisciplinari e psicologi. C’era poi tutta la presa in carico dei casi di violenza sessuale. Lavoravamo con cliniche mobili negli insediamenti informali e nei villaggi rurali lontani dalle strutture sanitarie».
Si è mai sentita in pericolo?
«No, ci sono procedure di sicurezza molto rigide. Prima di entrare in un contesto ci si assicura di essere accettati e di poter lavorare in sicurezza. Non siamo mai soli, c’è un team che si occupa specificamente della sicurezza. Il nostro punto di forza è la relazione con la comunità: offriamo servizi gratuiti, siamo indipendenti e curiamo tutti, senza stare da una parte o dall’altra. Tutto questo è il primo fattore di sicurezza».
Ha lavorato anche in Italia, soprattutto con i migranti. Che sensazione ha lasciato quell’esperienza?
«Un forte senso di ingiustizia. Le persone migrano per migliorare la propria vita e affrontano viaggi pericolosi che mettono a rischio la loro esistenza. Meritano attenzione, accoglienza e integrazione. Invece spesso sono discriminati non hanno accesso alle cure primarie, non vengono ascoltati e la barriera linguistica rende tutto ancora più difficile».
Cosa risponde a chi dice “Perché andare dall’altra parte del mondo quando c’è bisogno anche qui?”.
«Non si possono paragonare i bisogni e le necessità che si vivono in Paesi afflitti da guerre, ed emergenze. Stare dove c’è più bisogno è una scelta che rifarei tutti i giorni, sicuramente una scelta personale a prescindere dai giudizi altrui».
Qual è il prezzo di questa scelta?
«La lontananza dagli affetti è il punto dolente. Non è sempre facile far capire agli altri quello che fai. È una scelta di vita e bisogna trovare un equilibrio: ci sono delle pause e si torna a casa, ma stare tanto fuori ti allontana un po’ dal tuo mondo. Mi mancano la famiglia e gli amici e, andando avanti, ci sono anche preoccupazioni nel lasciare i propri cari qui».
Ha mai pensato di smettere di lavorare nelle missioni?
«Spesso penso: “Questa è l’ultima missione, poi mi fermo”. Ma ogni volta torno stanca e con un bagaglio in più. È un lavoro difficile, ma mi dà troppo. Per il momento è quello che voglio fare, poi chissà».
